Con il nostro impegno diamo una speranza a chi ne ha più bisogno
19 settembre 2018
Paolo Giovenali

“Normalizzare” l’accesso alla salute
Negli anni successivi siamo cresciuti. Nel 2001 si è costituita una associazione onlus, Associazione Patologi oltre Frontiera (Apof), che poi dal 2006 è stata riconosciuta dal Ministero degli Esteri come Organizzazione Non Governativa. Dopo qualche anno il progetto al Bugando si è concluso e il laboratorio di anatomia patologica è ancora pienamente funzionante: con due patologi e tre tecnici tanzaniani che effettuano più di settemila diagnosi all’anno. In questi diciotto anni, Apof ha gestito, con esito positivo, molti altri progetti, in Zambia, Nigeria, Gibuti, Repubblica Democratica del Congo, Uganda, Palestina, Cuba. Ogni progetto ha condotto tutti noi volontari di Apof, medici e tecnici, verso nuove esperienze e nuove competenze, che ora ci consentono di intervenire con relativa sicurezza di efficacia in molti e diversi contesti. Ho però ancora una domanda non risposta o forse un pregiudizio: nelle terre dove la povertà è estrema e dove c’è la guerra, spesso fratricida e sanguinosa, la diagnosi istologica è ancora una priorità? Nell’ultimo anno ci siamo avvicinati, con qualche perplessità, a un Paese, la Somalia del Nord (Somaliland), che, seppur unilateralmente separato dal resto della Somalia, risulta parzialmente pacificato, e che comunque vede una situazione di isolamento, siccità grave, povertà e scarso sviluppo. Ho sperimentato la determinazione della direzione dell’ospedale di Hargeisa a guardare verso il futuro, nonostante tutte le grandi ed inevitabili difficoltà. Ricordo ancora le parole del direttore, quando mi diceva che in tutta la Somalia, negli anni ’90, erano rimasti solo due patologi, a Mogadiscio, ma poi uno era morto nel conflitto e l’altro emigrato in Europa, e quindi non c’erano più possibilità di avere una diagnosi istologica. Ma era fiducioso che con il sostegno di Apof sarebbero rapidamente tornati alla normalità. Forse è proprio questa la parola chiave: la normalità, anche nella offerta di salute, che contribuisca a far riacquistare i diritti di cittadinanza, consentendo cure adeguate.
La Fondazione Umberto Veronesi in Afghanistan
Poi, l’anno scorso, è venuta la proposta della Fondazione Umberto Veronesi di una collaborazione per un progetto in Afghanistan per la prevenzione dei tumori della mammella. L’Afghanistan vive una situazione di conflitto, terrorismo e instabilità politica da quasi quarant’anni, ha un'economia al collasso e anni di grave siccità e che ha il sistema sanitario tra i più poveri nel mondo. I tassi di aspettativa di vita sono bassissimi e un bambino su quattro muore prima del quinto anno di vita. In Afghanistan c’è il secondo più alto tasso di mortalità materna del mondo e le malattie che sono ampiamente controllate nella maggior parte dei Paesi - malattie acute respiratorie, diarrea, morbillo - continuano a causare morte e disabilità infantile. A cosa serve un patologo in questa situazione? Come può l’anatomia patologica intervenire efficacemente in un’area di guerra? Ma anche questa volta la lungimiranza di Umberto Veronesi ci ha mostrato che i diritti non sono negoziabili e che proprio nelle zone di conflitto non è giusto aggiungere una ulteriore discriminazione per chi ha una grande sofferenza personale, come il cancro, negandogli l’accesso a prevenzione e cure adeguate. Al Maternity Hospital di Herat, la Fondazione Umberto Veronesi sostiene un progetto dal 2013, tramite l’apertura di un ambulatorio per la diagnosi precoce dei tumori della mammella. All’ambulatorio, gestito dalla dottoressa Ferzana Rasouli, sono stati forniti un mammografo e un ecografo e lì vengono effettuate più di mille visite l’anno. Si tratta di una realtà ben strutturata che ha la possibilità di ulteriore sviluppo e miglioramento. La naturale evoluzione di un centro di screening mammografico era l’introduzione della citologia agoaspirativa dei noduli mammari sospetti, per avere conferma della loro natura. E proprio questo è stato l’oggetto del nostro intervento. Per raggiungere lo scopo, abbiamo scelto la strada più semplice: lavorare insieme. Le dottoresse Saida Said (direttore dell’ospedale) e Farzana Rasouli (radiologa, responsabile dell’ambulatorio) sono venute a Perugia e per due settimane e hanno visitato il centro di screening mammografico della nostra Asl. Insieme a loro c’erano anche le dottoresse Fatema Karimi (ginecologa) e Fareshta Fitzli (biologa): il loro ben più ambizioso obiettivo era diventare citologhe e saper fare la diagnosi degli agoaspirati.
Promuovere la pace attraverso la scienza
Tre mesi di lavoro quotidiano nel laboratorio di anatomia patologica dell’ospedale di Perugia, con la visione e la discussione di decine di vetrini diversi ogni giorno, sotto la guida attenta, competente, e anche affettuosa, di Daniela Fenocchio, esperta di patologia mammaria, hanno fatto in modo che oggi le dottoresse afghane siano in grado di effettuare agoaspirati, anche con guida ecografica, di allestire i preparati e di riconoscere i principali quadri citologici. la sostenibilità, anche futura, del progetto è garantita dal microscopio con telecamera, fornito dalla Fondazione Veronesi, e portato avventurosamente a Herat smontato in due valigie. Tramite questa apparecchiatura c’è la possibilità di fotografare diversi campi dei vetrini e di inviare le foto tramite internet per un ulteriore controllo da parte di un esperto lontano; e l’esperto lontano (sempre e per fortuna, la dottoressa Fenocchio) riceve ogni giorno da Herat, decine di immagini da consultare… e ogni giorno donne Afghane, che probabilmente fino a qualche anno fa non avevano alcuna possibilità di accesso ad un servizio sanitario di così alto livello, ricevono una diagnosi accurata.
Le protagoniste di questa storia sono tutte donne, le dottoresse di Herat e di Perugia e tutte le pazienti dell’ambulatorio. Tanto di più dunque, indirizzando il nostro lavoro proprio verso le donne che, soprattutto nei contesti più difficili, continuano a essere oggetto di profonda discriminazione, si è rafforzata in noi la consapevolezza che anche le nostre azioni possano esercitare un richiamo al riconoscimento dell’uguaglianza dei diritti e all’impegno di aiutarne la promozione là dove sembrino ancora di là da venire. Del resto, non si possono non condividere le parole: «La scienza si fonda su un linguaggio universale e per questo è lo strumento più adatto per promuovere la pace a livello mondiale».
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Quello che però molti non sanno è che esiste un altro riconoscimento, che – sebbene non sia prestigioso come il primo – merita comunque attenzione: il Premio IgNobel.